Don’t fence me in – un dottore di ricerca atipico
All’inizio non fu, solo, per amore della ricerca. Cercavo un modo per approfondire un campo, quello dei diritti umani, che amavo, e allo stesso tempo volevo continuare la mia quotidianità di attivista in Amnesty International. Ho sempre pensato che la ricerca rigorosa fosse necessaria per ottenere risultati politici duraturi e, allo stesso tempo, che la sola ricerca, per quanto concentrata su temi attuali, non avrebbe aiutato il cambiamento che volevo vedere nel mondo. Così, per gli altri attivisti apparivo troppo meticoloso, per gli accademici troppo impegnato. Ma se non avessi concluso la mia ricerca, non avrei potuto dare alla mia carriera professionale e al mio impegno politico un taglio indipendente. Perché il dottorato non è solo o necessariamente l’anticamera della vita di ricerca. E’ anche un punto di svolta nell’evoluzione della propria capacità di agire. Con il mio lavoro nelle adozioni internazionali e poi nei progetti educativi, per CIFA Onlus e GCE-Italy, e per Amnesty International, prima come esperto educativo e ora come Presidente della Sezione Italiana, ho sempre attinto alle competenze acquisite in quei tre anni all’Università degli Studi di Torino. La mia ricerca puntava a scoprire le conseguenze, per la democrazia, del diffondersi a livello globale dei quartieri residenziali privati, o gated community, come vengono chiamate comunemente. L’intento era quello di partire dal contesto americano, approfondito con due mesi di ricerche sul campo, per poi ampliare l’analisi prendendo in considerazione cosa accade negli altri continenti. Detta così, può sembrare una tematica molto distante da quello che poi è diventato il mio lavoro. Ma ciò che più mi è servito, è stato il metodo. Il fatto di dover analizzare molti dati di prima mano, sbobinare ore di interviste, studiare centinaia di casi studio e soprattutto dover difendere le mie conclusioni, mi hanno abituato a costruire con pazienza le mie posizioni, e soprattutto a difenderle rimanendo comunque aperto alle critiche migliorative. Avendo lavorato in cinque continenti diversi e almeno dodici paesi, confrontandomi con culture anche molto distanti in quattro lingue, non sarei riuscito a mantenere la stessa serenità con un percorso di studi più breve. Per questo come titolo ho scelto uno dei brani più tradizionali della cultura statunitense. È singolare che abbia conosciuto questa canzone, cantata in tutte le feste del sud degli Stati Uniti, proprio mentre studiavo la passione per gli americani di chiudersi in comunità private recintate. Ma è proprio così che vedo ora il mio dottorato: un percorso grazie al quale, ora, non posso più essere ingabbiato.